Oggigiorno si sente parlare spesso di “innovazione”, “cambiamento”, “evoluzione”, sia in campo ludico, che personale e culturale.
Vorrei spostare però la vostra attenzione su un fenomeno che con l’innovazione va di pari passo e che contribuisce esso stesso ad un cambiamento, sociale o anche solo d’abitudine, inducendo nello spettatore un bisogno nuovo che lo porti a volere una determinata cosa, ad averne la necessità e spingendolo quindi a comprarla, o semplicemente sensibilizzandolo verso alcuni temi , favorendo l’integrazione, l’emancipazione o la modernizzazione.

Sto parlando della pubblicità.

La comunicazione pubblicitaria nasce e cammina parallelamente alle esigenze economiche, sociali, politiche e culturali di un Paese; non impone nuovi modelli culturali, al contrario va dietro quelli esistenti, segue i valori del pubblico, stereotipandoli; per dirlo con le parole del sociologo Vanni Codeluppi:

“Cattura i messaggi e i significati già esistenti nell’immaginario collettivo per metterli direttamente nelle merci vendute sul mercato ai consumatori, affinché essi si ritrasmettano a questi ultimi”.

Nel mondo della pubblicità, l’aspetto più importante è appunto quello di trasmettere il proprio messaggio agli spettatori nella maniera più incisiva possibile, in modo da collegare emozioni positive al prodotto che si intende pubblicizzare ed evitando di mostrare loro quelle situazioni che potrebbero infastidirli. Per fare questo non si può prescindere dall’attingere ad una serie di simbolismi che risiedono nel bagaglio culturale dell’azienda e soprattutto del pubblico che si vuole far diventare cliente. Vediamo ad esempio spesso negli spot italiani riprodotta l’idea di casa e di famiglia come la si immagina da sempre: un luogo accogliente e pulito, un nucleo famigliare formato da madre, padre e figlio piccolo che mangiano tutti insieme felici, con la donna che in primis si occupa di cucinare, badare alla prole e fare le pulizie, figure e ruoli stereotipati e cliché tradizionali, riconducibili alla pubblicità sessista, spesso utilizzati ancora oggi dai creativi, a maggioranza uomini e con poco tempo a disposizione per far passare un’idea.

La funzione vera e propria di cambiamento sociale scaturisce in genere nel momento in cui dei modelli culturali iniziano ad essere legittimati nei centri culturali metropolitani, quando la pubblicità intraprende la loro diffusione verso zone più distanti dai luoghi dell’innovazione e dell’elaborazione culturale. L’esempio più eclatante è proprio quello italiano degli anni ‘60, dove i modelli innovativi proposti negli spot erano rivoluzionari per il contesto ancora sostanzialmente contadino e cattolico italiano, ma erano totalmente legittimati nella maggioranza dell’“Occidente Capitalista”. Se Carosello (siparietto pubblicitario andato in onda sulla Rai per vent’anni, a partire dal 1957 e diventato uno dei programmi più significativi e accreditati della televisione) non avesse pubblicizzato, ad esempio, il dado da brodo e quindi non avesse convinto le massaie italiane che non si dovevano vergognare di dare ai loro cari un brodo istantaneo e se la pubblicità non avesse diffuso la convinzione che la produzione domestica del brodo non coincideva con la realizzazione sociale della donna moderna, probabilmente berremo ancora molti brodi veri, avremmo donne ancorate ai fornelli per ore e, in qualche modo, l’intero sviluppo sociale del paese ne sarebbe risultato frenato. Era infatti in particolar modo alle donne che si rivolgeva la pubblicità di quell’epoca, sia perché erano le prime responsabili degli acquisti della famiglia, sia perché si voleva rivolgere loro il messaggio di modernizzazione trasmesso dall’America e dai paesi maggiormente industrializzati e di larghe vedute. La pubblicità forniva informazioni su come si viveva all’estero o nelle grandi città, sfidando l’Italia a cambiare il modo stesso di vivere, per emanciparsi e stare al passo con le novità che incombevano nel resto del mondo occidentale. Si può così capire quale impatto abbia avuto la pubblicità televisiva e quali segnali abbiano trasmesso i comunicati che aprivano uno squarcio su come si potesse modificare la vita delle donne e su cosa significasse uscire dal ruolo della casalinga per acquistare un ruolo sociale autonomo, fuori dalle mura domestiche.

Oggi le priorità della società e, di conseguenza, della pubblicità sono sicuramente diverse; i tempi cambiano, così come la famiglia, o per meglio dire “i nuclei familiari”, che cominciano ad assumere identità differenti da quelle classiche. Iniziamo a vedere sempre più spesso spot che presentano la figura dell’uomo single che vuole preparare un piatto di pasta eccezionale, come nella pubblicità della De Cecco, o l’uomo separato che va ad aprire la porta all’ex moglie, che accompagna la figlioletta nella nuova casa Ikea del padre e il fatto che stanno cominciando a diffondersi pubblicità del genere, e che nessuno se ne lamenti, fa supporre che stiamo arrivando finalmente allo stadio dell’accettazione anche su questi argomenti, nonostante il nostro sia un paese che ha inserito il divorzio nel proprio ordinamento solo alla fine del 1970.

Ma come si dice: “Meglio tardi che mai”.